Film

AFTER PRAYERS

Simone Mestroni (Udine, 1981) vive e lavora in India portando avanti progetti in ambito antropologico e visuale, fra i quali una ricerca etnografica di lungo termine nel Kashmir indiano, incentrata sulle dinamiche identitarie legate al conflitto indo-pakistano. After Prayers, il suo primo documentario, è stato realizzato con il contributo della Wenner Gren Foundation ed è stato selezionato in vari festival internazionali. Linee di controllo (Meltemi 2018), il suo libro sul conflitto del Kashmir, è stato adottato ai corsi di antropologia all’università di Torvergata (Roma) e alla Bicocca di Milano. Kabristan, il suo lavoro fotografico sugli stessi temi, è vincitore del Deeper Perspective Award agli International Photography Awards.

 

Una cicatrice addominale infossata, il solco epidermico di una landa desolata. Ombre che danzano sinuose, cadenzate dal ritmo di un respiro affannoso, accarezzano una lesione ancora pulsante. Nell’emblematica scena di apertura, la macchina da presa sfiora delicata la pelle deturpata di un torace d’uomo.

Cambio di inquadratura. Il nero avvolge la narrazione fotografica, donando continuità visiva alle due sequenze. Appaiono scene notturne di vita quotidiana; la cantilena del muezzin ne scandisce il tempo. Un autobus; un pastore e il suo bestiame che invade la carreggiata; un barbiere; uomini che mangiano; uomini che pregano; fuoco, lapidi, candele accese.

“Il mio primo ricordo del sangue, della guerra, del volto più crudele di coloro che ci governano, risale a quando avevo cinque o sei anni. Qualcuno era stato ucciso e il suo corpo era stato portato a casa per essere visto per l’ultima volta dai familiari. Lo trasportavano su una barella, non in una bara. Erano cinque o sei persone. Urlavano: Azadi! Azadi! Non sapevo cosa volesse dire”.

Azad Kashmir (o Kashmir libero) è il Kashmir pakistano. Amaro riflesso dell’eredità coloniale britannica in India, la disputa del Kashmir rappresenta da tempo una ferita bruciante, la stessa che è magistralmente illustrata nell’apertura al film. Come una cicatrice geografica, la cosiddetta “Linea di controllo” divide il territorio conteso del Kashmir tra Pakistan e India.

La conseguenza del rapido ritiro dell’Impero britannico nel 1947 fu una suddivisione approssimativa dei due Stati contendenti, che pose in seguito le basi per una feroce e armata disputa che sfocerà nella prima guerra indo-pakistana. Il conflitto è ulteriormente esacerbato dalla matrice etnico-religiosa delle rivendicazioni: da un lato, la maggioranza musulmana che abita il Kashmir ed è conseguentemente sostenuta dallo stato pakistano; dall’altro, una piccola seppur influente componente indù. Dalla fine degli anni Ottanta, la sovranità indiana, percepita come incattivita occupazione straniera, viene contrastata dai separatisti islamici con continue rivolte, brutalmente represse dalle forze  governative.

Attraverso un approccio etnografico, il documentario mette in scena il contrasto della poetica delle immagini, il linguaggio visivo di un paesaggio naturale straordinario e la brutalità di Srinagar, capitale sconvolta da decenni di guerra, città divenuta una delle zone più militarizzate del mondo. La fotografia del film si tinteggia con i colori tenui, del verde e del blu, del Lago Dal, un incantevole specchio d’acqua abitato da giardini e case galleggianti e abbracciato esternamente dalla catena himalayana. Riprese in soggettiva traslano la struttura narrativa verso il linguaggio e la fotografia di viaggio.

Scene di vita quotidiana si intervallano alle voci dei protagonisti. Un giovane militante, un intagliatore del legno, un guerrigliero cieco. Lungo le scale di un corridoio buio, la macchina da presa segue Oyoub di spalle, con la musica della radio che accompagna i suoi vuoti occhi. Oyoub è un mujahideen, si avvicina alle mobilitazioni insurrezionaliste da bambino, poi  parte per l’Afghanistan, dove i fondamentalisti, combattono gli invasori della Russia comunista sostenuti dagli Stati Uniti. Poi, nel 1989, partecipa all’addestramento di massa dei giovani kashmiri, alla lotta armata. Infine, a capo di un gruppo di bambini-reclute, Oyoub rientra a Srinagar. Primi piani, occhi colmi d’innocenza,  la denuncia dalla voce rotta di una madre: nel 2010, “130 ragazzi e bambini sono diventati martiri”.

Residuo inconfutabile del delicato processo di decolonizzazione, la questione del Kashmir appare agli occhi del mondo una sterile disputa tra nazioni. Non è così. Al netto delle demarcazioni geopolitiche, il nodo del conflitto risiede in un desiderio ardente di autodeterminazione. Di Azadi. Di libertà. (ofelia libralato)

Trailer After Prayers_ITA from Rizoma on Vimeo.