Werner Herzog ricorda Bruce Chatwin e ne fa un film teso, drammatico, emotivamente spietato, che esplora il confine fra il senso della vita e quello della morte, fra la ricerca e l’aldilà, l’altrove.
Si chiama Nomad: in cammino con Bruce Chatwin, il documentario (Usa, 85’), in Italia distribuito da Feltrinelli Real Cinema e Wanted Cinema, che ha debuttato in ottobre ai festival di Trento e Roma e poi è uscito per tre giorni nelle sale con il patrocinio del Club Alpino Italiano. Poi i cinema sono stati chiusi e oggi il film è disponibile sulle principali piattaforme di streaming: Chili, Infinity, Io resto in sala, Google play, Wanted Zone, Itaca on demand.
L’inquietudine. L’irrequietezza. La curiosità. Chatwin viaggiava e scopriva, scriveva. Forse non era accurato come un cronista – “La sua era una verità e mezza” racconta il suo biografo Nicholas Shakespeare – ma appunto per la capacità di dare colore e vivezza ai suoi racconti, è stato in grado come nessuno di appassionare milioni di lettori al piacere della scoperta e dell’esplorazione di nuovi mondi, culture, civiltà. Il segno che ha lasciato nella narrativa di viaggio (e non solo) è stato grandissimo.
Un film che celebra il nomadismo in un momento in cui il mondo si è fermato a causa della pandemia. Il documentario è stato commissionato al regista dalla BBC nel 2019, quindi prima del virus, e nel trentennale della morte dello scrittore, avvenuta il 18 gennaio 1989 a 49 anni per le conseguenze dell’Aids, un’altra terribile epidemia che ha cambiato i nostri stili di vita. E di Aids si parla nel film, o meglio, si parla delle relazioni di Chatwin, intervistando la moglie, che non nasconde la bisessualità di Bruce, uomo capace di sedurre chiunque, come raccontano nel film biografo e amici, con l’eloquio, la simpatia, l’intelligenza, oltre che con la parola scritta.
Chatwin nei suoi ultimi mesi di vita, Chatwin che visita in Africa il set del film di Herzog “Cobra verde” tratto da un suo libro (I vicerè di Ouidah) e fatica a stare in piedi, ha bisogno di una carrozzina. Chatwin che non è più Chatwin perché non può più muoversi, viaggiare. Chatwin morente, che dona al regista il suo zaino di cuoio, che Herzog trent’anni dopo porta con sé come un feticcio nel suo viaggio filmico che si dipana dal Sudamerica all’Australia.
“Sui passi di Bruce Chatwin” – traduzione letteraria del titolo inglese – va davvero Herzog, cominciando dall’infanzia, dalle prime curiosità del ragazzino prodigio, diciottenne assunto dalla casa d’aste Sotheby’s, che a 26 anni abbandona il lavoro per viandare. “Il mondo si disvela a coloro che viaggiano a piedi” (“The world reveal itself to those who travel on foot”) è la filosofia di entrambi ed Herzog ricorda che Chatwin portava con sé il libro “Sentieri di ghiaccio”, leggendario diario del cammino del regista intrapreso nel 1974 da Monaco a Parigi per “salvare” l’amica Lotte Eisner gravemente ammalata, e salvare sé stesso dal dolore della sua perdita.
Herzog si vede non solo dietro ma davanti alla macchina da presa, come guida e voce narrante. Segue le tracce dell’amico Bruce ma è anche di sé che parla, interrogando i suoi demoni, compagni di cammino fino al termine della notte, oltre i finiti o infiniti passi che ci riserva l’esistenza.