Black Tracks. Sentieri per perdersi di Antonio Armellini
(La Chiusa Edizioni)
C’è anche una buona dose di ironia nel volume di Antonio Armellini Black Tracks” sottotitolo “Sentieri per perdersi”, una guida escursionistica sulle montagne del Friuli Venezia Giulia definita “atipica” dall’editore (La Chiusa di Chiusaforte) e “onesta” dal curatore Giorgio Madinelli. Atipico, nonché ironico, è il sottotitolo: quando mai si scrive (o si compra) una guida per perdersi? Semmai è il contrario. L’onestà la spiega con parole sue il curatore: “Perché, insieme alle direzioni da prendere – destra o sinistra, sud nord – questa guida ci indica la strada della responsabilità, offre elementi fomativi per acquisire autonomia e imparare a saper scegliere il sentiero e a orientarsi”. Il primo di questi elementi è certo la possibilità di perdersi, ma fa parte del gioco: a chi non è successo? Se si è in possesso delle capacità e dell’esperienza per ritrovare la strada, non è che la via a nuove scoperte e avventure.
“In viaggio, la cosa migliore è perdersi. Quando ci si smarrisce, i progetti lasciano il posto alle sorprese, ed è allora, ma solamente allora, che il viaggio comincia”. (Nicolas Bouvier)
“Finirai per trovarla la via… Se prima hai il coraggio di perderti”. (Tiziano Terzani)
Reale o metaforico, l’invito allo smarrimento di questi due grandi viaggiatori (entrambe le citazioni provengono dal libro) è viatico per introdurre la filosofia di Armellini, che sul suo metodo di esplorazione è molto più pratico:
“In presenza di un’alternativa, i sentieri Cai si fanno solo in discesa quando c’è brutto tempo”.
La frase, scolpita a inizio libro, ha poi una spiegazione nelle due pagine dell’introduzione, che funge anche da “avvertenze” (questo testo è stata anche pubblicata in anteprima sulla rivista IN ALTO distribuita ai soci Saf nel 2022, assieme a uno dei 44 itinerari proposti (Da Stavolo Rosean a Casera Crosis, nella riserva naturale regionale della Val Alba). In essa si spiega perché la guida non contenga né tempi di percorrenza, né dislivelli, né scala delle difficoltà essendo rivolta all’ “escursionista esploratore”, genere evoluto di chi va per monti e privilegia la scoperta.
Cosa sono i “black tracks”? I “sentieri neri” sono le tracce alle quali manca la segnaletica (che per la stragrande maggioranza della montagna italiana è identificata con i bolli bianchi e rossi del Club Alpino Italiano) e che, in certi casi, sono anche poco o per nulla visibili perché non mantenuti né frequentati e dunque ricoperti dalla vegetazione. Li vediamo tratteggiati in nero su alcune carte topografiche, ma più spesso non ci sono del tutto. In sostanza, Antonio Armellini propone una selezione personale di escursioni in montagna fuori dall’ordinaria rete sentieristica del Cai. Spiega nella presentazione ricca di richiami personali e aneddoti che la sua attrazione per le tracce insolite risale all’adolescenza. Ne ha trovato la fonte in una frase del Gautama Buddha: “Abbandona le grandi strade, prendi i sentieri. Ma non troverai il sentiero, se prima non diventi sentiero tu stesso”. L’individuo, spiega l’autore, deve “calarsi nell’ambiente naturale e negli archetipi che questo rappresenta” solo così lo conoscerà veramente. E quindi via ad affinare i sensi e l’esperienza: “Per trovare un “black track” ogni indizio è buono: uno stavolo apparentemente senza accesso, un cavo di teleferica penzolante, una traccia che la prima neve rende manifesta su un versante in lontananza, il racconto di un cacciatore o malgaro, una mappa militare della Grande Guerra, spessissimo un pestio di camosci, a volte un puro ragionamento dettato dall’esperienza: lì il sentiero non può non esserci”.
L’avventura, per Melania Lunazzi, autrice della prefazione, è un elemento chiave: “Che cos’è l’avventura se non quel batticuore che ti coglie quando affronti l’ignoto?”. Ma non è solo questo. L’invito a “perdersi nella ricerca della meta proposta” è ritorno al selvatico, prova di “non esserti ancora snaturato del tutto”, ma anzi di meritarsi “di appartenere ancora al meraviglioso regno degli animali, di possederne ancora l’essenza, la linfa… Ma di meriti questo volume ne ha anche altri perché ci porta a scoprire angoli di montagna friulana negletti, dimenticati, lontani, appartati”.
Introduce il volume anche un testo di Vittorino Mason che si concentra sul “greppismo”, quella forma di andare in montagna “libera e povera”: “Parola che deriva da greppo e che sta per scoscendimento, scarpata, dirupo, un andare fuori via, per tracce, laddove una linea immaginata porta il piede, la mano e l’ardire dell’avventuroso, inoltrarsi dove a volte neanche i camosci osano”.
Molti degli itinerari proposti da Armellini sono abbordabili, con le accortezze di cui si è detto. Al di là dell’uso escursionistico, le 244 pagine di Black Tracks (con 43 mappe 1:5000 e molte foto) sono una lettura piacevole, frutto di una scrittura precisa e mai banale, ricca di notizie storiche, etnografiche, naturalistiche e pure di cronaca locale, interviste ai (pochi) abitanti e testimoni. L’ “orso” Armellini (vedi biografia di suo pugno) ha fatto proprio un buon lavoro. (alessandra beltrame)
Antonio Armellini Classe 1955, m. 1.75 per Kg. 65, piede 7’1/2 (misure identiche a quelle di Reinhold Messner, anche se purtroppo le analogie finiscono lì). Maturità classica, laurea in medicina, specialità in odontostomatologia: tutte con il massimo dei voti, quindi secchione nato. Però con altrettanta passione per i monti: infatti sulla cima del Montasio, la settimana prima dell’esame di maturità, dallo zaino risulta abbia tirato fuori il libro di greco per una ripassata. Socio Cai dall’infanzia; membro più giovane del primo consiglio direttivo della neonata sottosezione di Tarcento, nel 1972. Ha conseguito il brevetto di sommozzatore: che ci azzecca con il personaggio lo sa solo Iddio. Odia telefono, computer, televisione, ma adora i libri. Molto più leggerli, che scriverli. Che altro? Un po’ misantropo, va d’accordo con gli orsi.