di Dušan Jelinčič (Bottega Errante Edizioni, 15 euro)
Dušan Jelinčič nasce a Trieste nel 1953 ed è giornalista della Rai del Friuli Venezia Giulia. È autore di Assassinio sul K2; I fantasmi di Trieste, Le Notti Stellate e l’Occhio di Buddha.
Ha scalato nel 1986 il Broad Peak, primo in Friuli Venezia Giulia a raggiungere la cima di un ottomila himalayano, a cui segue nel 2003 il Gasherbrum II.
Gli eroi invisibili dell’Everest s’ispira al tentativo di salita dell’Everest effettuato nel 1990, da cui era nato L’Occhio di Buddha, pubblicato in Slovenia nel 1998. Il romanzo ruota attorno a un interrogativo esistenziale: come affronti la tua montagna più alta, con lo spirito di uno sherpa o con l’attrezzatura di un alpinista americano? L’essere o non essere dell’alpinista. Un dilemma fra il vivere materialmente o spiritualmente la montagna. È una divinità o una cima da conquistare? Prevalgono per l’alpinista la brama e il desiderio di avvicinarsi agli dei e di innalzarsi spiritualmente o prevalgono l’avidità e la smania di fama e notorietà? Il Sagarmatha, come i nepalesi chiamano l’Everest, è sì l’attraente montagna più alta del mondo ma rappresenta anche la magnificenza di uno straordinario luogo sacro, l’origine di tutto il creato, come sottolinea Jelinčič: il punto d’incontro tra Oriente e Occidente, il dito di Adamo, e di Dio.
La narrazione si apre a Kathmandu, in una splendente mattina di marzo. Mark Curran respira l’odore d’incenso e l’aria polverosa della città, guardando l’orologio con lentezza, quasi temendo che lì quel gesto possa apparire inadeguato. Un incipit che catapulta il lettore in Nepal con un’immediatezza disarmante. Tutto è iniziato con una proposta del suo vecchio amico Paul Lake di ritornare insieme sull’Everest. Soltanto un anno prima, i due amici avevano effettuato un tentativo di salita con Jim Tyrer e Tony Milton, scomparsi durante la spedizione. Il vero obiettivo non è sfuggito a Mark: la spedizione non punta tanto a raggiungere la cima quanto piuttosto a indagare sulla morte dei due amici. La scomparsa della coppia di alpinisti resta un mistero irrisolto e rappresenta per Paul un incubo ricorrente. Paul è anche questa volta il capo spedizione. I compagni sono giovani, esuberanti e superbi, additano e deridono Mark come il vecchio del gruppo. E tale Mark si sente. Presto è chiaro chi sono i due prescelti per il primo assalto alla vetta: Robert e Gary. Nel contempo e sin dalle prime pagine comincia a emergere con evidenza la barriera che separa gli scalatori americani dagli sherpa. L’atmosfera al campo base è una congerie di sapori e atteggiamenti contrastanti: l’amaro dei presagi sussurrati dai portatori e dal vento, i pugni di riso gettati nelle braci in cerca di premonizioni, l’esuberanza dei giovani smaniosi della conquista della vetta e il persistente insinuarsi dei fantasmi di Jim e Tony nella mente turbata di Paul e Mark. La narrazione avanza velocemente di campo in campo e il lettore assiste ai tentativi falliti, finché arriva il turno di Mark, ultima possibilità di successo per la spedizione. Mark parte per l’ultimo tentativo, ma si accorge in breve che anche per lui la cosa più importante è non è la conquista della vetta. La scalata si trasforma quindi in un’ascesa verso la conoscenza, nel confondersi tra realtà e immaginazione. Mark si ritrova così a ripercorrere le tracce lasciate dagli amici scomparsi, Jim e Tony, e, prima di loro, da Mallory e Irvine, che taluni ritengono essere i primi salitori dell’Everest. Nelle sue confuse rappresentazioni mentali, Mark scopre anche che la verità sulla prima salita della montagna è stata fino ad allora non rivelata e che i veri eroi del Sagarmatha sono altri. (Ofelia Libralato)