di Daniele Nardi con Alessandra Carati (Einaudi Stile Libero, 17,50)
Daniele Nardi (Sezze, 24 giugno 1976 – Nanga Parbat, marzo 2019) alpinista di spirito indipendente, ha raggiunto la vetta di cinque Ottomila senza l’ausilio dell’ossigeno. Fra le sue ascensioni più importanti: Everest, K2, Broad Peak (8047 m), Nanga Parbat (8125 m), la cima Middle dello Shisha Pangma (8027 m). Dal 2009 ha cominciato un nuovo ciclo di spedizioni, in cui ha affrontato montagne più basse ma più difficili tecnicamente.
Nel 2011 ha aperto una via nuova sul Bhagirathi III (6454 m) in stile alpino, che gli è valsa il Premio Paolo Consiglio, il massimo riconoscimento alpinistico italiano. Dalle sue stesse parole, riportate tra le pagine del libro: “L’impresa sul Bhagirathi è stata la cosa più bella che mi sia capitato di fare in montagna. Perché mi sono divertito, perché ero libero, perché ho vissuto il piacere puro di confrontarmi con la natura. È questa la molla che fa salire, la curiosità di andare a vedere cosa c’è oltre. L’esplorazione dà una gioia elettrica, ti fa sentire vivo con la massima intensità possibile.”
La via perfetta è un’autobiografia intima, scritta con sincerità e piena di autocritica. È un libro appassionato, in cui l’alpinista si mette a nudo di fronte al suo pubblico, da sempre spaccato: quello élitario, una nicchia dentro la quale Daniele non si era mai sentito accettato; e quello delle persone fuori dall’ambiente, che lo osservavano tornare sulla stessa montagna, senza essere mai in grado di raggiungere la vetta. Scrive Nardi: “Sull’Everest, che è molto più alto, sale un sacco di gente e io sul Nanga non riesco a mettere il piede”.
Come alpinista non trova riconoscenza, fatica a guadagnarsi gli sponsor. Cerca visibilità mediatica, si espone. È qui che il desiderio di essere accettato, riconosciuto dall’ambiente diventa forte quanto la passione per la montagna. Traspare dalle pagine una personalità complessa, piena di contraddizioni, un velo di ossessione, di esaltazione, emergono debolezze e fragilità, una fortissima determinazione e un’enorme voglia di riscatto.
La forza mentale di Daniele nasce ed è alimentata da un senso di mancanza: la provenienza e le origini familiari gli precludono la possibilità di un’ammissione diretta e, per così dire, naturale nell’ambiente alpinistico sopra il Po. Nonostante i traguardi, Daniele si sente sempre Romoletto, un soprannome affibbiatogli da Silvio Mondinelli.
La voglia dell’invernale su un Ottomila inviolato nasce da questo desiderio di riscatto, dalla ricerca di un’occasione per dimostrare il suo valore e lasciare un segno nella storia dell’alpinismo. Non si tratta solo di conquistare la vetta, di finire lo sperone. Daniele combatte più battaglie: quella per l’appartenenza, quella con la tecnica e la più importante, quella interiore. È divorato dai dubbi, spaventato dal Nanga Parbat e ancor più dallo sperone Mummery. Durante il racconto, ripete più volte a sé stesso: “Vado avanti o torno? Cosa cerco davvero? Che senso ha la mia cocciutaggine? Quale prezzo sono disposto a pagare per dimostrare che si può fare, che io posso farlo? Fin dove siamo disposti a spingere il nostro limite? E dov’è il limite?”.
Nonostante ciò, non è stato in grado di sottrarsi al desiderio di tentare quella che sarebbe diventata la sua ultima impresa.
Daniele Nardi si era rivolto ad Alessandra Carati, scrittrice, editor e sceneggiatrice, per lavorare alla stesura del libro, incaricandola di portarlo a termine nel caso qualcosa gli fosse accaduto.
Lei l’ha seguito fino al campo base del Nanga Parbat, separandosi dall’alpinista solo durante la fase conclusiva della spedizione.
Entrambi erano consapevoli dei rischi e Daniele ha voluto garantirsi la possibilità di comunicare qualcosa e lasciare un messaggio rispetto al coraggio, alla forza, alla determinazione, del rimettersi in piedi e vincere le sfide della vita. (Ofelia Libralato)